«Non mi ha mai interessato la fotografia, ma le immagini. Credo che il mio lavoro inizi laddove finisce la fotografia». Questa affermazione di Barbieri, apparentemente paradossale, contiene una chiave di lettura fondamentale per accedere alla sua complessa ricerca.

Fra i principali esponenti della fotografia italiana, Barbieri è internazionalmente noto per le sue fotografie di città e megalopoli del pianeta attraverso i cinque continenti: da San Paolo a Istambul a Los Angeles a Montreal a Tel Aviv a Bangkok a Roma e soprattutto in Cina, che egli ha frequentato assiduamente a partire dagli anni ‘80. Ma ricondurre il suo lavoro solo a questo sarebbe riduttivo; fulcro della sua ricerca è infatti l’indagine sulla percezione, ovvero sulla nostra capacità di vedere e interpretare la realtà. Viaggiare è necessario per attuare sperimentazioni visive in contesti “iconografici” diversi. A partire dalla fine degli anni ’70, attraverso la fotografia a colori e un uso audace (quando non spregiudicato) del mezzo fotografico, che egli “piega” in base alle proprie necessità espressive, Barbieri ha messo in crisi le consuete modalità di rappresentazione, aprendo la strada a nuove e sorprendenti visioni. La fotografia è interpretata dunque non come strumento di rappresentazione ma come strumento di suggestione, capace di tradurre in immagini la propria esperienza percettiva del mondo.

Le riprese dall’alto con la tecnica della “messa a fuoco selettiva” (che evidenzia solo alcuni elementi, lasciando sfocato il resto della scena) hanno inaugurato un nuovo modo di percepire la città che, grazie all’introduzione di alcuni errori fotografici, ci appare in modo inedito, più simile a un modellino in scala che a un contesto reale.

In quella sottile linea di mezzo tra una fotografia che rappresenta i luoghi e un utilizzo del linguaggio che finisce per decretare l’ambiguità di ogni rappresentazione, si situa la fotografia di Barbieri: in bilico tra il certo e l’incerto, tra il reale e il plausibile.