Attraverso lo sguardo di Guidi l’aspetto visibile della realtà si svela per indizi parziali, solo in apparenza poco significativi. Tra i maestri di quel rinnovamento della tradizione fotografica italiana che, a partire dagli anni ’80, ha guardato al paesaggio scardinandone ogni visione precostituita – Guidi ha sviluppato una ricerca che, dall’analisi del paesaggio post-industriale, approda alla consapevolezza che quello contemporaneo è uno scenario complesso, che non si manifesta più per categorie rassicuranti (città-campagna; naturale-costruito; bello-brutto), ma si frammenta in un’infinità di segni di difficile definizione. Di fronte a questa complessità, che mette in crisi la anche la capacità di distinguere il rappresentativo dall’insignificante, Guidi ha scelto di ampliare il campo del fotografabile, ponendosi una posizione di ascolto rispetto a ciò che gli infiniti segni lasciati sul paesaggio possono suggerire. Questa attitudine di ascolto paziente si traduce coerentemente in un linguaggio per nulla altisonante, fatto di immagini che sono all’opposto della spettacolarità, poeticamente minimali, che invitano a porsi sulla stessa discreta, silente e rispettosa lunghezza d’onda. Il suoi lavori sono stati oggetto di numerose mostre (al Guggenheim, al Whitney Museum di New York, al Centre Pompidou di Parigi, alla Biennale di Venezia …), pubblicazioni (oltre 35 libri) e sono in collezione di diverse istituzioni internazionali come il MoMA di San Francisco, il CCA di Montreal o il MAXXI di Roma. Ma soprattutto il suo modo di guardare e ritrarre il mondo con una camera di grande formato 20x25 ha influenzato un’intera generazioni di fotografi, anche grazie alla intensa attività didattica che da sempre affianca alla ricerca.